Efficace terapia non farmacologica
per la working memory negli
anziani
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 13
aprile 2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Alla fine del Novecento, la
separazione fra i campi di studio del cervello era netta e rigida e l’assenza
quasi completa di comunicazione e scambio fra i ricercatori che studiavano le
basi neurobiologiche della mente e i medici che intervenivano per la diagnosi e
la cura dei disturbi neuropsicologici e psichiatrici, soprattutto in Italia,
era la regola. La casa comune delle neuroscienze era stata il sogno di Rita
Levi-Montalcini e di neurobiologi, neurologi e psichiatri, che avevano fatto
esperienza della possibilità, con i metodi di studio della propria disciplina,
di fornire elementi di conoscenza utili agli altri campi del sapere sul
cervello.
Luciano Lugeschi
nel 1981 lavorava al Bellevue Hospital con i coniugi Gianutsos
per la realizzazione del primo ingegnoso ed affidabile sistema computerizzato
di diagnosi e cura dei disturbi cognitivi da danno cerebrale, dal quale ha
avuto origine per semplificazione tutto il software
che si impiega attualmente. Lugeschi, portando in
Italia un sistema che consentiva, ad esempio, la misura della velocità centrale di processo del
cervello con una procedura assolutamente non invasiva, forniva la prova della
possibilità di un metodo ideato per la riabilitazione di produrre dati di
interesse neuroscientifico generale. Una componente fondamentale all’origine
della nostra società scientifica è stato proprio l’incontro di ricercatori di
base con ricercatori clinici operanti nel campo della neuroriabilitazione.
Una parte, di quello che è stato il
nostro impegno dal 2003 in Italia, rientra in quell’ambito che ha preso il nome
e lo statuto di Translational Neuroscience,
ossia un campo che, dalla neurochimica all’elettrofisiologia, porta le nuove
acquisizioni scientifiche direttamente all’applicazione clinica. In questo
ambito rientra un nuovo studio di Robert M. G. Reinhart
e John A. Nguyen che, studiando l’invecchiamento
fisiologico cerebrale e i metodi per conservare o migliorare le prestazioni
cognitive negli anziani, hanno elaborato una procedura non invasiva in grado di
determinare un rapido miglioramento della working memory.
(Reinhart R. M. G. & Nguyen J.
A., Working memory revived in older
adults by synchronizing rhythmic brain circuits. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-019-0371-x,
April 8, 2019).
La provenienza degli autori è la seguente: Department
of Psychological & Brain Sciences, Center for Systems Neuroscience,
Cognitive Neuroimaging Center, Center for Research in Sensory Communication
& Emerging Neural Technology, Boston University, Boston, Massachusetts
(USA).
Il concetto di memoria di funzionamento o working memory (WM) o, come è stato erroneamente tradotto, memoria di lavoro, nasce in seno alla
neuropsicologia come ipotesi dell’esistenza di un sistema temporaneo di
immagazzinamento dell’informazione concepito quale processo dinamico necessario
allo svolgimento di tutte le operazioni cognitive basate sull’informazione
sensoriale attuale. L’idea nasceva interpretando i dati raccolti nello studio
del cosiddetto magazzino a breve termine (MaBT),
ossia un’ipotetica sede temporanea di memoria dichiarativa umana studiata
mediante compiti sperimentali (Hunter, 1957; Newell
& Simon, 1972; Atkinson e Shiffrin,
1968). Gli studi condotti negli anni seguenti, soprattutto da Alan Baddeley e colleghi con la tecnica del “compito doppio”,
fornirono numerose prove a sostegno dell’esistenza di un processo temporaneo in
grado di supportare, momento per momento, le necessità di registrazione dei
compiti cognitivi e cognitivo-verbali. Proprio la natura delle prove cui erano
sottoposti i volontari nelle sessioni di esperimento influenzò il primo modello
neuropsicologico di WM: lo si descriveva costituito da un “blocco per appunti visuo-spaziale”, un “ciclo fonologico” e un “sistema
esecutivo centrale”[1].
Nella ricerca di base, ossia nello
studio su animali dei neuroni della corteccia prefrontale attivi con quelli
ippocampali per consentire prestazioni che richiedono ritenzione di
informazioni attuali, la pioniera della WM è stata senza dubbio Patricia
Goldman-Rakic. Joaquin Fuster,
che aveva scoperto con i suoi colleghi le cellule
della memoria nella corteccia prefrontale di scimmia, aveva resistito al
concetto di WM, sostenendo che non vi fossero prove a sostegno di una tale
definizione concettuale. Come lui stesso racconta, dopo aver provato a proporre
definizioni quali memoria temporanea,
memoria provvisoria, memoria attiva, memoria attiva a breve termine – nessuna delle quali fu accettata –
ed aver resistito inutilmente come uno che voglia fermare un’onda oceanica con
le mani, capitolò accettando la definizione di working memory[2].
Al di là della completa corrispondenza
della funzione umana studiata con compiti percettivi e linguistici a quelle
delle scimmie e dei roditori di laboratorio, e atteso che la specifica
molecolare, sinaptica, di sistemi neuronici e di reti cerebrali sia necessaria
per definire il profilo neurobiologico della WM, la possibilità di avere un
ambito concettuale comune per scambiare informazioni e vagliarle criticamente
in chiave comparata è stata sicuramente una risorsa straordinaria per la
ricerca degli ultimi due decenni.
Come osservano Reinhart
e Nguyen, uno scopo delle neuroscienze di base e
“traduzionali” è la conoscenza dei processi fisiologici dell’invecchiamento
cerebrale e lo sviluppo di mezzi, metodi e strategie per conservare e
migliorare le prestazioni cognitive con l’avanzare dell’età. Lo studio condotto
dai due ricercatori dell’Università di Boston ha evidenziato che il nucleo
sostanziale del declino cognitivo, con i deficit di WM connessi, che si
sviluppa dopo la sesta decade di vita, è funzionalmente costituito da una disconnessione
tra circuiti locali e circuiti a lungo raggio. In condizioni
fisiologiche, infatti, si rileva, alla registrazione elettroencefalografica (EEG),
un accoppiamento di ampiezza di fase teta/gamma nella corteccia temporale e una sincronizzazione
in fase teta attraverso la corteccia frontotemporale.
Sulla base di tale rilievo, Reinhart e Nguyen hanno deciso di
sviluppare e sperimentare un metodo adatto a promuovere l’accoppiamento di fase
e la sincronizzazione tipiche dell’età giovanile e adulta in epoca presenile. A
tale scopo hanno messo a punto una procedura non invasiva, somministrata
secondo un protocollo esposto in dettaglio nel testo del lavoro originale, in
grado di modulare le interazioni teta di lungo raggio grazie ad una specifica
stimolazione.
La sperimentazione è stata condotta
su un gruppo di volontari adulti di età compresa tra i 60 e i 76 anni. Dopo 25
minuti di stimolazione, sintonizzata sulla frequenza delle dinamiche delle reti
dei singoli cervelli, i due ricercatori hanno potuto osservare un incremento
preferenziale nei pattern di
sincronizzazione neurale e il ritorno del flusso di informazione nei rapporti sender-receiver
tra le regioni frontali e temporali e all’interno della corteccia
frontotemporale.
Reinhart e Nguyen affermano che il
risultato finale della stimolazione, in termini comportamentali, è consistito
in un rapido e significativo miglioramento delle prestazioni di WM, che persisteva
per 50 minuti dopo la cessazione dell’erogazione delle frequenze di stimolo.
In conclusione, questo studio ha
fornito nuovi elementi di conoscenza sulle basi fisiopatologiche del declino
cognitivo dovuto alla senescenza, ed ha sperimentato con successo una strategia
non farmacologica di promozione delle abilità cognitive, basata sul ripristino
del comportamento elettrico fisiologico delle reti corticali che mediano
l’elaborazione intellettiva della percezione. La terapia di stimolazione
sperimentata da Reinhart e Nguyen
potrebbe diventare un intervento routinario in tutti i casi di riduzione senile
delle prestazioni cognitive causato da difetto della WM.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni
di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-13 aprile 2019
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